La terribile pandemia che ha colpito il mondo intero, ci ha messo davanti a nuovi scenari, misurando il nostro Paese anche in termini di innovazione e sviluppo tecnologico. Molte aziende hanno dovuto adottare misure di “smartworking”: un termine inglese che non indica il lavoro da casa, ma si riferisce a una forma di lavoro agile, intelligente, una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (come ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone).
Siamo pronti per questa nuova frontiera?
Gli innumerevoli disagi che in molti hanno dovuto affrontare davanti a quesa nuova modalità di lavoro, nella maggior parte dei casi sono dettati dal fatto che l’Italia ha una struttura economica prevalentemente manifatturiera con un livello ancora molto basso di digitalizzazione e robotizzazione. Grande parte del tessuto produttivo è composta da piccole e medie imprese, meno predisposte a investire nelle tecnologie che permettono di ottimizzare il lavoro a distanza. Questi dati diventano cruciali in un’ottica generale della situazione e penalizzano il nostro Belpaese rispetto agli altri. Secondo un report dell’agenzia europea Eurofound, nel 2018 appena un italiano su cinque aveva lavorato a casa nell’ultimo anno, mentre altrove, in Europa, il rapporto è di uno su tre.
Dov’è il futuro?
È evidente, quindi che il coronavirus ci ha catapultato in una nuova realtà che da troppo tempo stenta a svilupparsi definitivamente. Nel tentativo di ritornare alla normalità sarà importante capire come lavorare per il futuro, cercando di definire un nuovo paradigma produttivo. Bisognerà ricostruire intere filiere con nuove modalità di lavoro, la robotica diventerà indispensabile per garantire la business continuity delle aziende e prenderà il sopravvento nelle manifatture che dovranno diventare sempre più competitive e automatizzate. La sfida non sarà facile, ma non è impossibile.